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Il leone africano non ruggisce, l'animazione di Oshii non convince, bene l'italiano no budget

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L'attrice etiope Evelyn Johnston-Arthur (Reuters)

Come non capitava da anni, si arriva alle battute finali della Mostra, nonostante manchino ancora i superbig, senza avere un vero favorito al Leone d'oro. Tanto che molti puntano sulla pesciolina rossa Ponyo di Hayao Miyazaki, non il miglior titolo del maestro giapponese, ma di sicuro l'opera più bella vista in concorso. Un premio che sarebbe divertente e in qualche modo coraggioso, dando all'animazione una nuova centralità. Già sottolineata con l'inserimento in concorso di due film di questo tipo. Ma il secondo, "The sky crawlers" di Mamoru Oshii, altro straordinario interprete del genere, delude. Così anche "Teza", film etiope di Haile Gerima, sorta di incrocio tra Meglio gioventù e Persepolis della "generazione di fenomeni" del tormentato stato africano. Infine, alle Giornate degli Autori, arriva il secondo film italiano, il no budget "Un altro pianeta" di Stefano Tummolini. Qualche inevitabile difetto, molte ingenuità ma alla fine un'opera gradevole.

Teza - Concorso
L'attesa era tanta per l'unico titolo africano in concorso, sia solo per la portata storico-cinematografica dell'evento. Avevamo ancora negli occhi lo splendido Daratt, visto proprio qui al Lido, esempio brillante di un continente che nella settima arte sta ritrovando una nuova primavera, dopo una ventina d'anni di rallentamento. In più il regista di "Teza" è il Gerima che regalò quel piccolo capolavoro di arte e resistenza che era Sankofa (1993). A questo, probabilmente, si devono i troppi giudizi entusiasti per un film che pur volenteroso e impegnato, fa fatica spesso ad alzarsi dalla mediocrità. "Teza" è la storia di Anberber, tra Etiopia e Germania. Intellettuale impegnato politicamente, legato al paese d'origine e idealista, si ritrova a combattere le battaglie più difficili del suo paese, e non solo. Così lo vediamo negli anni '70 a Colonia in pieno clima di protesta collettiva e anni dopo nello scontro violentissimo e fratricida tra le fazioni marxiste-leniniste che stavano massacrando il suo paese: in entrambi i casi lui è in prima fila, come studente o come dottore, per provare a rendere il mondo migliore. Noi lo scopriamo attraverso una catena di flashback scorti con il montaggio e lo stile di quel cinema africano che fa dell'anarchia visiva e di una certa sgrammaticatura cinematografica e recitativa la sua forza. Anberber, infatti, senza una gamba e invecchiato, è tornato nel suo paese, ancora in guerra, per rimanere con la vecchia madre. E deve, vuole decidere come contribuire, ancora e nonostante tutto, al bene della cosa comune, sia anche solo del suo villaggio. Ricorda allora i tempi andati, i dolori vissuti, pur sempre migliori dell'incubo presente. Il più classico dei rifugi nel passato alla ricerca, almeno, della speranza. Le basi per un film importante e potente c'erano tutte, e in alcune parti neanche disattese. I 140 minuti scorrono anche bene, ma l'orgia di informazioni e stimoli a cui siamo sottoposti non scende mai oltre la superficie, così come fa la regia, che riprende stilemi vecchi già per grandi maestri del continente e di questo cinema classico ed epico (il recentemente scomparso Chahine, per esempio). Aaron Arefe, poi, sembra non reggere l'imponente peso del suo personaggio, risultando privo di carisma e del talento necessario (molto meglio l'amico Abeye Tedla). Molti gridano al Leone, ma risulterebbe oltremodo generoso e immeritato, persino in un concorso zoppicante come questo.

The Sky Crawlers - Fuori Concorso
Dopo l'ottimo Miyazaki, eravamo convinti che anche con Oshii, regista d'animazione che ha regalato piccoli capolavori come Ghost in the shell, Avalon e Patlabor, saremmo andati sul sicuro. E in effetti nel tratto dei disegni, nella forza dell'animazione, nulla si può dire a "The Sky crawlers", battaglia dell'animo e di grandi questioni che si combatte a parole e in volo, con dei caccia che regalano sequenze d'azione davvero notevoli. Ma non basta: Oshii, oltre a un talento visivo non comune ci ha abituato anche a racconti di straordinario impatto e originalità. Qui, invece, si lascia andare a un progetto forse troppo ambizioso. In un presente futuribile (o in un futuro non presentabile), la guerra è diventata uno show tra enormi multinazionali che fanno capo ai grandi continenti e superpotenze. Il motivo è salvaguardare il mondo da conflitti frammentati e incontrollabili, lasciandogli quella sensazione di paura e pericolo che gli serva a ricordare il bene prezioso della pace. A fagiolo cade quindi l'esperimento genetico mal riuscito dei Kildren (nel nome, un destino), che ha creato una generazione di adolescenti immortali che non diventeranno mai adulti, pur avendone le stesse pulsioni e pensieri. I guerrieri perfetti, o quasi. Tra reincarnazione, Camus, filosofia più o meno spicciola, amore e altri demoni ci si attorciglia attorno al significato profondo della vita e (soprattutto) della morte senza molto costrutto, con troppe pause e poca efficacia. E anche quando ci si lascia ipnotizzare da momenti di cinema d'animazione (quelli muti, in particolare) di grande bellezza, rimane un grande senso di insoddisfazione.

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